IL PALMENTO

Nella zona  di Solicchiata anche a causa della secolare inesistenza di strade che impediva il trasporto dell'uva da un posto all'altro, era costellato da una miriade di singoli palmenti di diversa grandezza, spesso in rapporto diretto con l'estensione dei vigneti collegati. Ve ne erano di enorme e di piccoli, ma tutti avevano le stesse caratteristiche tecniche e strutturali e gli stessi ambienti.

La meta generale delle raccolte era il palmento, ossia il luogo dove sarebbe avvenuta la prima trasformazione dell'uva in mosto.

Il palmento era costituito:

1.      da un locale nel quale i vendemmiatori, avvalendosi delle finestre, scaricavano l'uva con le grosse ceste. Tale composto, di forma spesso quadrata, era detto "pista" ed era costituito da un pavimento in pietra lavica circondato da un muretto di 50 o 60 cm. di altezza detto "tabbuneddu".

2.      A livello inferiore rispetto al "pista" c'era uno scompartimento stagnato, detto "ricivituri" vi erano vasche dove andava a finire il mosto dopo la torchiatura ("Tina")

Il "ricivituri" era lo scompartimento più importante di tutto il palmento, questo locale era dominato dal legno di Conzo o chianga di quercia stagionata della lunghezza variabile tra i 6 e 9 metri, con diametro tra il metro e i 60 cm. circa, terminante posteriormente a nido di rondine e collegato con una trave fissa detta "u pedi". La parte anteriore finiva a forcella ed era collegata con una vite di legno verticale, quasi sempre di sorbo, di 20 cm di diametro circa, che si inseriva, con la sua filettatura di legno "i pani" in un grosso e spesso rettangolo, sempre di legno di quercia stagionata, detta "scufina". Il legno era fiancheggiato ai due lati da due travi " scale " avevano 4 o 5 buchi su cui si inseriva una "trafitta" di ferro durante i movimenti  guidati dal grosso legno. Alla fine era collegata una grossa pietra lavica con tronco-conico del peso compreso tra 3 o 5 tonnellate, mediante una piccola trave lignea orizzontale detta vaina.

Esaurita la raccolta dell'uva, ma in moltissimi casi in pari tempo, iniziava nei palmenti la fase della pigiatura. Entravano in azione allora operai detti "pistaturi" con grosse scarpe chiodate. Guidati da un capo squadra, giravano ritmicamente nel "pista"e schiaccivano i grappoli di uva. Dopo una serie di giri, su quello che rimaneva dei grappoli di uva veniva posto un pesante intreccio circolare di rami detto "sceccu", sul quale salivano in parecchi per fare peso. In questo modo il mosto cominciava a sgrondare dai grappoli schiacciati.

Dopo che questi venivano pestati, erano immessi nel "ricivituri" mediante pale (15) di legno. Il ricevituri era isolato da tini sottostanti mediante un tappo legato. Dietro il tappo era collegato un mazzo di sarmenti, detto "u mazzuni", tenuto fermo da una grossa pietra che poi al momento dello svuotamento dei tini ("sbottamento")  sarebbe servito da filtrante, per trattenere bucce e vinaccioli.

 

 

 

Uscita del mosto al momento del Sbottamento

Finita la pigiatura dell'uva, il mosto e le vinacce erano lasciate a fermentare ("bollire") nel "ricivituri" della 12 alle 36 o più ore, in base al colore che si voleva dare al vino. In questo periodo, la "pasta" veniva rivoltata ("mataffiata") più volte dagli operai, i quali dovevano fare molta attenzione perché nel locale si sviluppava anidride carbonica, molto pericolosa perché provocava asfissia. 

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15 Il grido caratteristico del momento era "e pali" ossia "alle pale".

 

I LAVORI DEL CONZO

Gli operai con le pale in dotazione in ogni palmento, accumulavano le vinacce a forma tronco-conico, affinché il mosto che colava, finisse a terra e non sulle altre vinacce; per tenerle ferme venivano usate fasce fissate alla massa per mezzo di punteruoli di legno detti "cavigghiuni" su di esse veniva posto un spesso e pesante tavolato "u tavuleri", su cui piano piano, girando la vite con un palo rotondo trasversale "a stanga", cominciava a scendere la parte del legno di conzo.

Man mano che la vite di legno girava nella "scufina", il legno gravava sulle vinacce e faceva alzare la pietra lavica, salita quest'ultima all'altezza di circa un metro da terra, si bloccava il legno con due piccole travi di ferro, dette "trafitte", una veniva inserita tra la coda del legno ed il "piede" fisso nel  muro posteriore, mentre l'altra veniva posizionata tra i vari buchi delle scale.

L'operazione di torchiatura veniva ripetuta da 2 a 3 volte mediante i ritagli, cioè gli  aggiustamenti che venivano fatti alle vinacce per mezzo di una scure. Era importante l'ultimo ritaglio; infatti, il mosto che usciva seppur aspro ("lappusu") era quello che dava colore alla massa, perché ricco di tannino e di coloranti.

Tutta la struttura del torchio, risalente al tempo dei Romani e per questo detto anche latino denotava generalità costruttive e nello stesso tempo funzionalità. La forza di pressione raggiunta non di poco ma neppure paragonabile ai moderni torchi idraulici, permetteva di ottenere un mosto torchiato di buona qualità complessiva.

Per il trasporto del mosto si servivano di pesanti e robusti otri (16) di tela, che venivano posti, da 2 a 4 sulla groppa di asini o muli, oppure quando era possibile, sui carretti Particolare risultava il momento in cui il mosto dei tini veniva versato negli otri per mezzo di "quartara" di zinco di circa 10 litri. Un bracciante scendeva nei tini con i pantaloni rimboccati e a piedi nudi, riempiva la "quartara", la numerava e la porgeva al mulattiere che, nel frattempo, aveva messo nella bocca dell'otre un imbuto con il fondo crivellato. La prima quartara era detta " In nome di Dio",  la seconda "Di Maria", la terza "San Giuseppe", la quarta "In Cumpagnia", la quinta "Di tutti i Santi" ecc. si salta il 17, contato "16+1" oppure non si "cunta"," il 25 Natale" e si riposava alla  50ª quartara quando si raggiungeva la cosiddetta "tagghia".

 

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16 Otri: erano recipienti fatti con l'intera pelle di un animale domestico, avevano una capienza da 40 a 50 litri.

             

 

 

CANTINE E BOTTI

Il mosto veniva conservato nelle botti delle varie cantine, che in linea di massima si trovavano nell'ambito dello stesso vigneto, oppure alcuni proprietari se lo portavano a Castiglione centro dove avevano apposite cantine.

Il legno più usato per costruire le botti era quello di castagno o quercia. La preparazione delle botti era un'operazione delicata e necessaria. Esse venivano risciacquate prima con acqua e sale e poi con mosto cotto a cui erano aggiunte carrubbe.

Spesso un bracciante, di frequente il massaro entrava nella botte dalla piccola portella ( "a purtedda") e dava inizio alla "paliata" con acqua e sale e infine anche con metabisolfito. Una botte cosi tratta era in grado di poter contenere bene il mosto.

Non erano rari i casi di perdite dal " timpagno" o delle "doghe" o da "purtedda" che costringevano i cantinieri ad arrangiarsi con argille, "stoppa" per cercare di tappare le varie fessurine da cui usciva, con fare quasi dispettoso, il mosto.

I locali delle cantine erano costituiti da seminterrati  molto freschi ma non umidi, solo cosi si poteva avere una conservazione ottimale del vino in esse contenuto, tenendo conto specialmente delle lunghe e caldi estati castiglionese.

Novembre e dicembre erano i mesi in cui il mosto si sarebbe trasformato in vino. "Per San Martino", l'11 Novembre, si tasta (assaggia) u primu vinu.

Si aspettava il freddo più intenso che avrebbe contribuito a far separare ("nchiarire") il mosto da tutto il materiale che per gravità, si stabilizzava sul fondo delle botti, dando luogo alla feccia. Verso gennaio inoltrato avveniva il travaso del vino, in altre botti. La feccia rimasta sul fondo delle botti veniva messa in grossi sacchi di tela, in modo da lasciare passare il vino ancora contenuto. Questi sacchi pieni venivano inseriti nei tinelli, recipienti di doghe di legno a forma tronco-conica, i quali venivano appesi ad un rullo collegato con una trave del tetto della cantina. Man mano che il sacco pieno pressava verso l'imboccatura del tinello, cadeva la parte liquida che si depositava sul fondo e poi fuoriusciva da un buco della parte bassa. In questo modo si recuperava, se l'annata era stata climaticamente  buona, un vinello leggero ed apprezzabile detto “torcifezza”:

Quando le botti rimanevano vuote, venivano subito solforate, cioè vi si accendeva internamente un poco di zolfo messo in un canale e si tappavano ermeticamente con gesso. L’anidride solforosa sviluppatasi avrebbe contribuito a sterilizzare tutto l’interno.

Nei primi mesi del nuovo anno cominciava l’attività dei vari sensali, cioè di persone che si occupavano a tempo pieno della compravendita del vino. Quasi l’80% del vino veniva avviato verso il porto di Riposto. Il resto del vino che non veniva mandato a Riposto, e quindi la piccola produzione, venivano comprati da piccoli grossisti locali, che poi lo avviavano verso i negozi e le osterie di Catania, ed altri centri della provincia, dove i vini rossi del comprensorio di Solicchiata avevano numerosi degustatori e sostenitori.

Ringrazio Gaetano Bonaventura per il materiale fornitomi.